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martedì 14 gennaio 2020

Incipit: Illuminae

Buongiorno lettori! Torno attiva finalmente sperando di rimanere costante, sperando perché come se non bastasse essere fuori casa per dieci ore per lavoro tolti impegni e vita familiare il tempo che resta è sempre scarsissimo e ora col nuovo cucciolo in arrivo vedo e prevedo tempo tirato! Ma si sa, quando uno ha nel sangue la passione per qualcosa anche un minuto al giorno riesce a ricavarlo. Quindi eccomi qui a parlarvi di Illuminae, primo libro della serie omonima fantascientifica di Jay Kristoff e Amie Kaufman, serie a cui mi sono approcciata per curiosità verso la composizione grafica del libro più che per la storia ma che mi ha colpito al cuore con la sua avvincente trama e i suoi personaggi spettacolari. Piuttosto che scrivere l'incipit vi lascio le prime tre pagine di Illuminae per farvi capire cosa intendo con composizione grafica. Domani uscirà la recensione di Gemina, mentre per quella di Illuminae trovate il link diretto QUI. In lettura ho Obsidio, l'ultimo capitolo di questa vicenda pazzesca e adrenalinica.




Buona lettura!

venerdì 20 dicembre 2019

Incipit: Il nostro segreto

Buon giorno lettori! Oggi torno a parlarvi di Carlene Thompson e dell'ultimo romanzo letto Il nostro segreto di cui più tardi pubblicherò la recensione. Sul blog trovate altri articoli che la riguardano perché per quanto mi concerne ho letto tutti i suoi romanzi (me ne manca uno solo che però mi centellinerò) e la adoro in ogni sua storia. Parliamo di gialli con tanti omicidi e molti enigmi ragionati.

“Non pensi che dovremmo tornare alla barca, adesso?” disse Marissa Gray, appoggiandosi al tronco di una grossa magnolia, i cui fiori giallo-verdi brillavano perfino nell’oscurità. Eric Montgomery le tracciò una linea di baci da dietro l’orecchio lungo il collo.
“Non voglio tornare alla barca. Perché non ci stabiliamo qui sull’isola? Dopotutto, è l’isola dei Gray. Apparteneva al tuo bisnonno”.
“Al mio bis-bis-bis-bisnonno Lucian, il ramo più asociale dell’albero genealogico. I suoi affari erano in città, ma ogni sera tornava nel suo regno”.
“La sua grande casa, la sua piccola chiesa e – vediamo – quanti schiavi?” Marissa sospirò.
“Troppi. Lucian non disdegnava di usare la frusta. Uno morì per le percosse. Si vendicarono dando fuoco alla casa e ai loro alloggi alla fine della Guerra civile. Risparmiarono la famiglia e la chiesa”.
Marissa si accigliò.
“Ma perché ti incuriosisce tanto Gray’s Island stasera? Hai già sentito tutte queste storie”.
“Non direttamente dalla bocca del cavallo”.
Marissa sgranò gli occhi.
“Mi stai paragonando a un cavallo?” sbottò. “Be’, nessuno mi aveva mai…”
“Mai cosa?” chiese Eric in tono innocente, poi scoppiarono a ridere e, barcollando un po’, siabbracciarono nella calda serata estiva. Le braccia di Eric si strinsero intorno alla sua vita snella e le mani di lei risalirono fino a intrecciarsi dietro il suo collo. Si baciarono con passione, poi Eric si staccò lentamente.

Buona lettura!

lunedì 9 dicembre 2019

Incipit: Fredda è la notte

Buongiorno lettori! Questi giorni sono per me carichi di cose da fare in preparazione delle feste di Natale, tra addobbi, pacchi e bigliettini, il tempo è sempre quello che manca alla fine della giornata. Nonostante tutto riesco a leggere abbastanza e il giallo che ho quasi terminato sarà presto fonte di post dedicati. Ma oggi voglio parlarvi di Carlene Thompson e del suo Fredda è la notte. Per chi non la conoscesse è un'autrice di romanzi gialli un po' vecchio stampo, ovvero l'ambientazione è ai giorni nostri ma il modo di raccontare, di descrivere le scene dell'autrice ricorda molto la regina Agatha Christie. La particolarità delle sue storie è quella di aver come protagoniste sempre donne all'apparenza fragili ma che in realtà sono coraggiose e combattive. Vi lascio all'incipit e in settimana alla recensione completa!

Prologo

 Si sforzò di aprire gli occhi. Per prima cosa vide un grappolo di stelle sullo sfondo del cielo nero come la morte, poi qualcuno chinarsi su di lei. "Ancora sveglia?" chiese.
 Le erbacce le irritavano il viso. Alzò la testa. "Per favore..."
 "Per favore cosa? Vuoi che ti lasci andare? Non posso. Non più".
 Le vennero le lacrime agli occhi. Accidenti, stava sognando? No. Nei sogni il cuore le batteva forte, mentre ora il ritmo rallentava. Le lacrime le colarono sulle tempie poi tra i capelli.


 D'un tratto si ricordò che una volta, a cinque anni, era sgattaiolata fuori dalla sua camera per esplorare la casa in costruzione accanto alla sua. Era diventata un'attrazione irresistibile non appena le avevano detto che era pericolosa, che non avrebbe dovuto andarci mai. Dopo essere scesa al piano di sotto in punta dei piedi, mentre gli altri guardavano la televisione, era uscita dalla porta sul retro, rischiando di inciampare nei lacci sciolti delle sue scarpe da ginnastica che spuntavano dalla lunga camicia da notte. Si era aggirata per il cantiere in punta di piedi, euforica, rifiutandosi di trovare deludenti le assi, le carriole e le macchine che di giorno scavavano l'enorme buca. Il nonno le aveva spiegato che sarebbe diventata la cantina. Guardandosi attorno si era sforzata d'immaginare tutto quello spazio ingombro di vecchi mobili e libri come la loro, anche se in realtà sarebbe stata molto diversa; sempre secondo il nonno, i nuovi proprietari intendevano ricavarci una sala giochi, con tavoli da ping-pong e "altre diavolerie" per far divertire i figli.


 Cominciando ad annoiarsi, aveva deciso di provare l'ebrezza di sporgersi dalla buca; ma era inciampata nel laccio di una scarpa ed era precipitata, emettendo un piccolo grido solo al momento di toccare terra. Poi, mentre giaceva con la gamba rotta e dolorante, e una gran confusione in testa per la botta, si era ritrovata a guardare le stelle - le stesse che vedeva ora - e aveva pianto per il dolore, terrorizzata all'idea di restare li per sempre senza poter dire quanto fosse pentita di aver fatto una cosa tanto brutta che Dio l'avrebbe fatta morire per questo.


 Ora però aveva diciassette anni e sapeva con certezza che stava per morire. Non c'era più il nonno, che quella volta era uscito a cercarla, un'ora dopo la sua scomparsa quando si erano accorti che lei non era nel suo letto. Nessuno sarebbe venuto in suo aiuto e lei non avrebbe avuto scampo.
 Fu colta dal panico. "Non puoi farlo" disse al volto chino su di lei.
 "Lo devo fare e lo farò".
 Alzò la testa. Respirava a fatica. "Ti odio" disse a denti stretti, dando sfogo alla collera.
 "Che ne è stato della ragazzina buona e dolce che tutti conosciamo? Ora mostri il tuo vero carattere?" Seguì una pausa. "Comunque me ne infischio di quello che pensi di me e ti consiglio di risparmiare il poco fiato che ti resta".
 La ragazza tremava, si muoveva a scatti. Non era legata. Agitava le gambe perché aveva perso il controllo dei muscoli. Quando si fermarono, fu come se non facessero più parte del suo corpo. Con un gemito lasciò ricadere la testa all'indietro.
 "Così va meglio. Non vorrai continuare a rivoltarti contro di me fino all'ultimo, vero?"
 Tentò di parlare. Ti prego, non farlo, avrebbe voluto dire. Non me lo merito. Ma la sua lingua d'un tratto diventò enorme, la gola secca e si udì soltanto 'prego' e 'merito'.
 Un sospiro, poi la voce assunse un tono di gelida efficienza. "Si sta facendo tardi. E' ora di agire".


 La mano destra che si alzò su di lei brandiva un coltello da cucina. La sua lama seghettate splendeva alla luce della luna. "Avrei preferito ucciderti nel sonno, ma sei talmente testarda che non vai nemmeno a dormire quando dovresti".
 In un attimo le passarono davanti agli occhi i progetti per l'università, le partite di pallone negli anni del liceo nelle fresche sere d'autunno, il viso amorevole della nonna, il ricordo di Taffy, il suo adorato gatto, scomparso quando lei aveva sette anni, la sua auto nuova, le mani di lui che l'accarezzavano dolcemente. Gli stupendi occhi viola di zia Joan...


 Ma tutto si dissolse nella visione quasi surreale del coltello che le si conficcava nella carne. I suoi polsi erano squarciati. Il sangue tiepido le colò sulle braccia fumando leggermente nel fresco della sera. Aprì la bocca per parlare, ma tutto ciò che ne uscì fu un gemito appena percettibile. Fece un ultimo, disperato tentativo di reggersi su un gomito, ma era troppo debole e si abbandonò tra i rovi, respirando affannosamente.


 Il battito del cuore era sempre più flebile, ma il cervello funzionava ancora, seppure in modo confuso. Aveva ragione la nonna, le venne stranamente da pensare. Ripeteva sempre che il male che si ha nell'animo prima o poi si ritorce contro di noi. Le sue intenzioni erano cattive - l'aveva sempre saputo. Contrastavano con tutto quello che le era stato insegnato sulla sacralità della vita, ma lei non era l'unica a essersi comportata male.


 Una mano le afferrò il polso sinistro e l'alzò verso il coltello. Nella rassegnazione che subentra quando si è ormai completamente disperati, smise di pensare, guardò ancora una volta quel turbinio di stelle. Poi chiuse gli occhi.


Buona lettura!

martedì 19 novembre 2019

Incipit: Shining

Buongiorno lettori! Questa settimana è tempo di parlare di Stephen King in particolare di Shining. Vista l'uscita del film Doctor Sleep, ho deciso di recuperare entrambi i romanzi con protagonista la famiglia Torrance e rivedere anche l'epico film con Jack Nicholson. Oggi vi lascio in compagnia dell'incipit, il colloquio di assunzione di Jack Torrance presso il famoso Overlook Hotel.

PRELIMINARI
1 COLLOQUIO DI ASSUNZIONE

Jack Torrance pensò: Piccolo stronzo intrigante.

Ullman era alto poco più di un metro e sessanta, e quando si muoveva aveva la rapidità scattante che sembra essere peculiare a tutti gli ometti grassocci. Aveva i capelli spartiti da una scriminatura impeccabile, e il completo scuro era sobrio, ma non severo. Sono un uomo al quale potete tranquillamente esporre i vostri problemi, diceva quel completo alla clientela solvente. Al personale stipendiato parlava invece in modo più sbrigativo: sarà meglio che filiate diritto, voialtri. All'occhiello spiccava un garo-fano rosso, forse per evitare che per la strada qualcuno scambiasse Stuart Ullman per il titolare dell'impresa di pompe funebri.

Mentre ascoltava Ullman, Jack ammise tra sé che, date le circostanze, con tutta probabilità non gli sarebbe piaciuto proprio nessuno, da quella parte della scrivania.

Ullman gli aveva posto una domanda che Jack non aveva afferrato. Molto male: Ullman era il tipo capace di archiviare uno sbaglio del genere in un suo schedario mentale per tornarci sopra in un secondo momento.

"Scusi?"


"Le ho chiesto se sua moglie ha capito esattamente quali saranno le sue responsabilità, qui. £ poi c'è suo figlio, naturalmente." Chinò lo sguardo sulla domanda di assunzione che gli stava di fronte. "Daniel. Sua moglie non è un tantino spaventata all'idea?"

"Wendy è una donna straordinaria."

"E suo figlio? È straordinario anche lui?"


Jack sorrise di un largo sorriso da pubbliche relazioni. "Ci compiacciamo di crederlo, direi. È abbastanza indipendente, per essere un bambino di cinque anni."


Ullman non ricambiò il sorriso. Tornò a infilare in una cartellina la domanda di assunzione di Jack e la ripose in un cassetto. Ora il ripiano della scrivania era sgombro, fatta eccezione per un tampone, un telefono, una lampada orientabile e un cestello per la corrispondenza in arrivo e in partenza. Anche i due scomparti del cestello erano vuoti.


Ullman si alzò e si avvicinò allo schedario posto in un angolo della stanza. "Per favore, giri attorno alla scrivania, signor Torrance. Daremo un'occhiata alla planimetria dei vari piani dell'albergo."

Tornò allo schedario e ne tolse cinque grandi fogli che posò sul lucido ripiano di noce della scrivania. Jack gli si pose accanto e avvertì intensamente il profumo dell'acqua di colonia di Ullman. Tutti i miei uomini usano " Cuoio Inglese" oppure niente, gli venne fatto di pensare senza nessun motivo particolare, e dovette mordersi la lingua per non scoppiare in una sonora risata. Oltre la parete giungevano i rumori attutiti della cucina dell'Overlook Hotel che smobilitava dopo il pranzo.


"Ultimo piano," disse brusco Ullman. "È la soffitta. Non c'è assolutamente niente
lassù, a parte qualche cianfrusaglia. L'Overlook ha cambiato parecchie volte proprietario dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, e a quanto pare i vari direttori che si sono succeduti hanno sbattuto in soffitta tutto quello che non era di loro gusto. Voglio che vi siano piazzate trappole per topi ed esche avvelenate. Le cameriere del terzo piano so-stengono di aver udito dei fruscii, là
sopra. Io non ci credo affatto, ma non dev'esserci nemmeno una probabilità su cento che resti un solo topo, all'Overlook Hotel."


Jack, secondo il quale qualsiasi albergo ospitava almeno un paio di topi, si guardò bene dal ribattere.

"È appena il caso di dire che non permetterà a suo figlio di salire nella soffitta, per nessun motivo."

"No, no," disse Jack, e tornò ad abbozzare il suo largo sorriso da pubbliche relazioni. Che situazione umiliante! Quello stronzo intrigante credeva sul serio che avrebbe permesso a suo figlio di bighellonare in una soffitta abitata dai topi e zeppa di vecchie carabattole e Dio sa che altro?


Ullman scartò la planimetria della soffitta e la infilò sotto la pila degli altri fogli.


Buona lettura!

lunedì 11 novembre 2019

Incipit: Fattore 1%

Buongiorno lettori! Il mio salva lunedì arriva puntuale con un libro manuale letto il mese scorso. A brevissimo troverete anche la mia recensione, ma nel frattempo godetevi questo incipit che a mio avviso rende perfettamente l'idea di ciò che si trova all'interno del libro Fattore 1% di Luca Mazzucchelli.

Introduzione.
Il potere delle abitudini
RANE, ABITUDINI E CAMBIAMENTO

Una rana salta per caso in una pentola appena messa su un fornello acceso. La fiamma è bassa e la rana nuota a suo agio in un'acqua pulita e appena tiepida, in un ambiente confortevole. L'acqua pian piano si riscalda, ma la rana la trova ancora piuttosto gradevole. La fiamma si alza ulteriormente e l'acqua ormai è diventata calda, un po' più di quanto la rana apprezzi. Ma non si spaventa, compie un piccolo sforzo e si abitua ben presto all'aumento del calore. Mano a mano che l'acqua si scalda, la rana sente che la temperatura è davvero troppo alta e quindi decisamente sgradevole, purtroppo però, oramai si è indebolita e quindi non fa più nulla per salvarsi. Così sopporta, sopporta, fino a quando la temperatura non si alza ancora, fino a ucciderla.

Il principio della rana bollita ci ricorda come, quando un cambiamento si realizza in maniera sufficienetemente lenta e graduale, allora può sfuggire alla nostra coscienza, non suscitando alcun tipo di reazione o di opposizione. Il paradosso di questa storia è che se la rana si fosse immersa nella pentola nel momento in cui l'acqua bolliva, sarebbe subito saltata fuori o, per lo meno, ci avrebbe provato.

Adesso riflettiamo su chi o che cosa ha ucciso la rana. L'acqua bollente? Colui che ha acceso il fuoco? No, è stata la sua incapacità di decidere quando saltare fuori. Il cedere all'abitudine e la pigrizia hanno portato la rana a tentare di saltare fuori dalla pentola troppo tardi, quando non le era più possibile salvarsi.

Esattamente come la rana di questa storia anche noi finiamo con il rassegnarci e l'abituarci a ciò che non ci fa bene, come relazioni impari, notizie drammatiche, abusi ripetuti, strette economiche, compromessi, difficoltà della vita. Magari all'inzio proviamo a ribellarci, protestiamo, ci agitiamo, ma alla fine spesso cediamo all'abitudine. Con questo non intendo sostenere che abituarsi o adeguarsi sia sempre la scelta sbagliata; voglio invece chiarire che esiste sempre un'alternativa al permettere agli altri o alla vita di "bollirci" emotivamente, fisicamente, spiritualmente e psicologicamente. Si tratta di un'alternativa che richiede un certo sforzo da parte nostra, un'azione che probabilmente non è spontanea né immediata ma, sul lungo periodo, è utile a preservare il nostro benessere. Balzare fuori dalla pentola, all'inizio, costa fatica, può addirittura dispiacere, perché tutto sommato non è così disagevole il tempore iniziale. Mentre lo sforzo di saltar fuori richiede molte energie, spesso anche mentali.

La storia della rana ci insegna che talvolta, senza rendercene conto, gradualmente rimaniamo incastrati proprio in ciò che ci fa male. Per evitare questo dobbiamo imparare ad essere vigili e a riflettere sugli effetti a lungo termine delle nostre scelte così da comprendere quando è il momento giusto per darsi la spinta, sempre prima che sia troppo tardi.

Questo libro parla di abitudini e in particolare di come imparare ad acquisire quelle che piano piano aiutano a migliorare la nostra vita, favorendoci nel raggiungimento dei nostri obiettivi.

Buona lettura!

martedì 5 novembre 2019

Incipit: Assassinio sull'Orient Express

Buongiorno lettori! Arriva anche per questa prima settimana di Novembre, in cui le temperature si sono decisamente abbassate, l'incipit consueto. Agatha Christie fa da protagonista questa settimana con il suo Assassinio sull'Orient-Express. Avete visto l'ultima rappresentazione filmica?

Parte prima

I fatti
Capitolo primo
Un passeggero importante sul Taurus Express

Erano le cinque di una mattina invernale in Siria. Alla stazione di Aleppo sostava il treno definito dagli orari ferroviari con il nome altisonante di Taurus Express. Era composto da un vagone ristorante, un vagone letto e due vagoni ordinari.
Accanto al predellino del vagone letto un giovane tenente francese conversava con un ometto imbacuccato fino alle orecchie, del quale si vedevano soltanto la punta del naso e le due estremità dei baffi arricciati all'insù.
Faceva un freddo glaciale, e il compito di accompagnare alla stazione un distinto viaggiatore straniero non era certo da invidiare, ma il tenente Dubosc faceva virilmente la sua parte. Dalle sue labbra uscivano con eleganza frasi francesi ben tornite. Non che avessa la minima idea dell'intera faccenda. C'erano state voci, naturalmente, come sempre in casi del genere.
L'umore del generale, del suo generale, si era fatto sempre più nero. E poi era arrivato questo belga: fin dall'Inghilterra, a quanto pareva. C'era stata una settimana di strana tensione. In seguito erano accadute alcune cose. Un ufficiale di grado molto elevato si era suicidato, un altro aveva dato le dimissioni; l'ansia era scomparsa all'improvviso da volto tesi, alcune precauzioni militari erano state allentate. E il generale, il generale del tenente Dubosc, era sembrato all'improvviso dieci anni più giovane.
Dubosc aveva udito parte di una conversazione fra lui e lo straniero.
«Lei ci ha salvato, mon cher» aveva detto il generale commosso, con i grandi baffi bianchi tremanti. «Ha salvato l'onore dell'esercito francese, ha evitato che si spargesse del sangue! Come posso ringraziarla per avere risposto alla mia chiamata? Per essere venuto da tanto lontano...?»
 AL che lo straniero - un certo Monsieur Hercule Poirot - aveva dato una risposta adeguata che includeva la frase: «Non ricordo, forse, come una volta lei mi abbia salvato la vita?» E il generale gli aveva dato una risposta altrettanto adeguata, respingendo ogni merito per quel servizio resogli in passato. Poi, con ulteriori accenni alla Francia, al Belgio, alla gloria, all'onore e ad altre cose del genere, si erano abbracciati cordialmente e la conversazione aveva avuto termine.
Quanto all'argomento di cui avevano trattato, il tenente Dubosc ne era ancora all'oscuro, ma gli era stato assegnato il compito di accompagnare Monsieur Poirot al Taurus Express, e lui lo eseguiva con tutto lo zelo e l'ardore che si confacevano a un giovane ufficiale con una promettente carriera davanti a sé.
«Oggi è domenica» disse il tenente Dubosc. «Domani, lunedì sera, sarà a Istanbul.»
 Non era la prima volta che faceva quell'osservazione. Le conversazioni sul marciapiede prima della partenza di un treno sono spesso alquanto ripetitive. «Proprio così» convenne Monsieur Poirot.
«E intende restarci qualche giorno, credo.»
«Mais oui.. Istanbul è una città che non ho mai visitato. Sarebbe un peccato attraversarla...comme ça.» Fece schioccare eloquentemente le dita. «Non ho alcuna fretta, mi fermerò per qualche giorno da turista.»
«Santa Sofia è molto bella» disse il tenente Dubosc, che non l’aveva mai vista.
Un vento freddo soffiò sul marciapiede. Entrambi rabbrividirono. Il tenente Dubosc riuscì a lanciare uno sguardo furtivo al suo orologio. Mancavano cinque minuti alle cinque, solo cinque minuti ancora!
Temendo che l’altro avesse notato il suo sguardo, si affrettò a parlare di nuovo.
«Ci sono pochi viaggiatori in questa stagione» disse, lanciando uno sguardo ai finestrini del vagone letto.
«Proprio così» convenne Monsieur Poirot.
«Auguriamoci che non restiate bloccati dalla neve sul Tauro.»
«Succede?»
«È successo, sì. Non quest’anno, per ora.»
«Speriamo bene, allora» disse Monsieur Poirot. «Le notizie dall’Europa non sono buone.»
«Tutt’altro che buone. Nei Balcani c’è molta neve.»
«Anche in Germania, ho sentito.»
«Eh bien» si affrettò a dire il tenente Dubosc, temendo un’altra pausa nella conversazione. «Domani sera alle sette e quaranta sarà a Costantinopoli.» «Sì» disse Monsieur Poirot, e aggiunse disperato: «A quanto ho sentito, Santa Sofia è molto bella.»
«Splendida, credo.»
La tendina di uno degli scompartimenti del vagone letto sopra di loro venne scostata e una giovane donna guardò fuori.
Mary Debenham aveva dormito poco da quando aveva lasciato Baghdad, il giovedì precedente. Non aveva dormito bene né sul treno per Kirkuk, né all’albergo di Mosul, né quella notte in treno. Adesso, stanca di stare distesa nel caldo soffocante dello scompartimento surriscaldato, si era alzata e sbirciava fuori.
Doveva essere Aleppo. Non c’era niente da vedere, naturalmente. Solo un lungo marciapiede male illuminato con qualcuno che litigava ad alta voce in arabo da qualche parte. Due uomini sotto il suo finestrino parlavano in francese. Uno era un ufficiale francese, l’altro un ometto con baffi enormi.
Accennò un sorriso. Non aveva mai visto nessuno tanto imbacuccato. Fuori doveva fare molto freddo. Ecco perché riscaldavano tanto il treno. Cercò di abbassare il vetro, ma non scendeva.
Il controllore del vagone letto si era avvicinato ai due uomini. Il treno stava per partire, disse. Monsieur avrebbe fatto meglio a salire. L’ometto si tolse il cappello. Aveva la testa a forma di uovo. Malgrado le sue preoccupazioni, Mary Debenham sorrise. Era un ometto ridicolo. Il tipo di ometto che non si sarebbe mai potuto prendere sul serio.
Il tenente Dubosc pronunciava il suo discorso di congedo. Lo aveva messo a punto in precedenza tenendolo in serbo per l’ultimo minuto. Era un discorso molto bello e forbito.
Per non essere da meno, Monsieur Poirot rispose sullo stesso tono.
«En voiture, monsieur» disse il controllore del vagone letto.
Con espressione di infinita riluttanza, Monsieur Poirot salì sul treno. Il controllore salì dietro di lui. Monsieur Poirot salutò con la mano. Il tenente Dubosc si portò la mano alla visiera. Con uno scossone terribile il treno si mosse lentamente.
«Enfin!» mormorò Monsieur Hercule Poirot.
«Brr» sbuffò il tenente Dubosc, rendendosi conto appieno di quanto freddo facesse…

«Voilà, monsieur.» Con un gesto teatrale il controllore mostrava a Poirot la bellezza del suo scompartimento e come fosse stato sistemato il bagaglio.
«La valigetta di monsieur, l’ho messa qui.»
Tese la mano in modo eloquente. Hercule Poirot vi mise una banconota ripiegata.
«Merci, monsieur.» Il controllore assunse un atteggiamento pratico e spiccio. «Ho qui i biglietti di monsieur. Mi dia anche il passaporto, prego. A quanto ho capito, monsieur interrompe il viaggio a Istanbul.»
Monsieur Poirot assentì.
«Non ci sono molti viaggiatori, immagino» disse.
«No, monsieur. Ci sono solo altri due passeggeri, entrambi inglesi. Un colonnello proveniente dall’India e una giovane signora da Baghdad. Ha bisogno di qualcosa?»
Monsieur chiese una bottiglietta di Perrier.
Le cinque del mattino sono un’ora scomoda per salire in treno. Mancano ancora due ore all’alba. Consapevole di aver dormito poco, quella notte, e di aver portato a termine con successo una missione delicata, Monsieur Poirot si raggomitolò in un angolo e si addormentò.
Quando si svegliò erano le nove e mezzo, e fece una sortita verso il vagone ristorante in cerca di un caffè.
Al momento c’era solo un altro passeggero, evidentemente la giovane signora inglese della quale aveva parlato il controllore. Alta, snella e bruna, doveva essere sui ventotto anni. L’aria di fredda efficienza nel suo modo di mangiare e di chiamare il cameriere perché le portasse altro caffè testimoniava una profonda conoscenza del mondo e dei viaggi. Indossava un abito da viaggio scuro di una stoffa leggera molto adatta all’atmosfera surriscaldata del treno.
Hercule Poirot, non avendo niente di meglio da fare, si divertì a studiarla senza parere. Doveva essere quel tipo di giovane donna che sa badare perfettamente a se stessa dovunque vada. Era calma ed efficiente. A Poirot non dispiacevano la severa regolarità dei suoi lineamenti e il pallore delicato della pelle. Apprezzava la sua testa bruna e lucente con i capelli ben pettinati a onde, e gli occhi grigi, freddi e impersonali. Ma era un po’ troppo efficiente, decise, per essere ciò che lui definiva una “jolie femme”.
Ben presto entrò nel vagone ristorante un’altra persona. Era un uomo alto, fra i quaranta e cinquanta, snello e di carnagione bruna, con le tempie appena brizzolate.
Il colonnello che viene dall’India” si disse Poirot.
Il nuovo venuto si inchinò alla ragazza.
«Buon giorno, signorina Debenham.»
«Buon giorno, colonnello Arbuthnot.»
Il colonnello stava in piedi con una mano appoggiata alla sedia dirimpetto a quella di lei.
«Niente in contrario?» chiese.
«No, naturalmente. Si sieda.»
«Sa, a colazione non sempre si ha voglia di chiacchierare.»
«Infatti. Ma non mordo.»
Il colonnello si sedette.
«Ragazzo» chiamò in tono perentorio.
Ordinò caffè e uova.
Il suo sguardo si posò per un attimo su Hercule Poirot, ma si spostò subito con indifferenza. Poirot, leggendogli correttamente nel pensiero, comprese che si era detto: “Soltanto un dannato straniero.”
Fedeli alla propria nazionalità, i due inglesi non parlavano molto. Si scambiarono poche brevi osservazioni, e presto la ragazza si alzò per tornare nel suo scompartimento.
A pranzo lei e il colonnello si sedettero di nuovo a tavola insieme ed entrambi ignorarono completamente il terzo passeggero. La loro conversazione era più animata che a colazione. Il colonnello Arbuthnot parlava del Punjab e di tanto in tanto rivolgeva qualche domanda alla ragazza su Baghdad, dove fu presto chiaro che aveva lavorato come istitutrice. Nel corso della conversazione scoprirono alcuni amici comuni, il che ebbe l’effetto immediato di renderli più cordiali e meno riservati. Parlarono del vecchio Tommy Tal-dei-tali e di Jerry Tal-altro. Il colonnello si informò se andasse direttamente in Inghilterra o se si fermasse a Istanbul.
«No, proseguo direttamente.»
«Non è un peccato?»
«Ho fatto lo stesso percorso due anni fa in senso inverso e mi sono fermata tre giorni a Istanbul.»
«Oh, capisco. Be’, devo dire che sono lieto che prosegua, perché proseguo anch’io.»
Accennò una specie di goffo inchino, arrossendo impercettibilmente.
Il nostro colonnello è alquanto sensibile” pensò Hercule Poirot divertito. “Il treno sembra pericoloso quanto un viaggio per mare!
La signorina Debenham disse in tono pacato che sarebbe stato molto piacevole. I suoi modi erano lievemente scoraggianti.
Hercule Poirot notò che il colonnello la riaccompagnava allo scompartimento. Poco dopo attraversarono lo splendido scenario del Tauro. Mentre ammiravano le Porte della Cilicia, in piedi nel corridoio l’uno accanto all’altra, all’improvviso la ragazza sospirò. Poirot stava accanto a loro e la udì mormorare.
«È così bello! Vorrei… vorrei…»
«Sì?»
«Vorrei potermelo godere!»
Arbuthnot non rispose. La sua mascella quadrata sembrò più ostinata e severa.
«Vorrei con tutto il cuore che ne fossimo fuori» disse.
«Silenzio, per favore. Silenzio.»
«Oh! È tutto a posto.» L’uomo lanciò uno sguardo vagamente irritato in direzione di Poirot. Poi proseguì: «Ma non mi piace proprio il lavoro di istitutrice, sempre agli ordini di madri tiranniche e di insopportabili marmocchi.»
Lei rise e fu come se per un attimo si lasciasse un po’ andare.
«Oh! Non è affatto così. L’istitutrice oppressa è un mito del tutto sorpassato. In realtà sono i genitori a temere di venire tiranneggiati da me.» Non dissero altro. Forse Arbuthnot si vergognava di aver parlato tanto impulsivamente.
È una commediola piuttosto strana quella cui mi trovo ad assistere” si disse pensoso Poirot.
In seguito avrebbe ricordato questa riflessione.
Arrivarono a Konya quella sera alle sette e mezzo circa. I due passeggeri inglesi scesero a sgranchirsi le gambe, passeggiando su e giù sul marciapiede coperto di neve.
Monsieur Poirot si accontentò di osservare da un finestrino l’attività frenetica della stazione. Dopo circa dieci minuti, tuttavia, decise che forse una boccata d’aria non gli avrebbe fatto male. Si preparò accuratamente, avvolgendosi in molteplici cappotti e sciarpe e infilando i lindi stivali nelle calosce. Così bardato scese con cautela sul marciapiede e incominciò a percorrerlo. Arrivò oltre la locomotiva.
Furono le voci a rivelargli le due figure indistinte nell’ombra di un carro merci. Era Arbuthnot a parlare.
«Mary…»
La ragazza lo interruppe.
«Non ora. Non ora. Quando tutto sarà finito. Quando ce lo saremo lasciato alle spalle… allora…»
Poirot si allontanò discretamente. Si chiedeva di che cosa parlassero.
Aveva stentato a riconoscere la voce fredda, efficiente della signorina Debenham…
Strano” si disse.
Il giorno dopo, si chiese se per caso non avessero litigato. I due si rivolgevano appena la parola. La ragazza, pensò, sembrava preoccupata. Aveva due cerchi scuri intorno agli occhi.
Erano circa le due e mezzo del pomeriggio quando il treno si fermò. Si videro alcune teste sporgersi dai finestrini. Un piccolo manipolo di uomini era radunato accanto alle rotaie e accennava a qualcosa sotto il vagone ristorante.
Poirot si sporse a parlare con il controllore del vagone letto che passava in fretta. L’uomo gli rispose e Poirot ritirò la testa: voltandosi, si scontrò quasi con Mary Debenham in piedi proprio dietro di lui.
«Di cosa si tratta?» gli chiese quasi senza fiato in francese. «Perché ci siamo fermati?»
«Non è niente, mademoiselle. Qualcosa ha preso fuoco sotto il vagone ristorante. Niente di serio. Lo hanno spento. Adesso riparano il danno. Non c’è pericolo, glielo assicuro.»
Lei fece un piccolo gesto brusco, quasi giudicasse l’idea del pericolo assolutamente priva di importanza.
«Sì, sì, capisco. Ma l’orario!»
«L’orario?»
«Sì, ci sarà un ritardo.»
«È probabile» convenne Poirot.
«Ma non possiamo permetterci un ritardo! Il treno deve arrivare alle 6.55 e dobbiamo attraversare il Bosforo e prendere il Simplon Orient Express alle 9 precise. Se ci saranno un’ora o due di ritardo, perderemo la coincidenza.»
«Sì, è probabile» ammise lui.
La guardò incuriosito. La mano aggrappata alla sbarra del finestrino non era perfettamente ferma e anche le sue labbra tremavano.
«È tanto importante per lei, mademoiselle?» le chiese.
«Sì, molto. Devo, devo prendere quel treno.»
Gli voltò le spalle e si allontanò lungo il corridoio per raggiungere il colonnello Arbuthnot.
Ma la sua apprensione era superflua. Dieci minuti dopo il treno ripartiva. Arrivò a Haydarpasa con soli cinque minuti di ritardo, avendo recuperato durante il viaggio.
Il Bosforo era agitato e a Monsieur Poirot la traversata non piacque affatto. Sulla nave venne separato dai suoi compagni di viaggio, che non rivide più.
Quando arrivò al ponte di Galata si recò immediatamente all’Hotel Tokatlian.

Buona lettura!

lunedì 28 ottobre 2019

Incipit: L'incubo di Hill House

Buon pomeriggio lettori! Il mio salva lunedì è rappresentato dagli incipit dei romanzi letti o in lettura che sono prossima a recensire e mi permettono sempre di ripensare a quello che ho vissuto durante la lettura e danno sempre un valore aggiunto anche dopo che è passato del tempo. Oggi vi lascio in compagnia di Shirley Jackson con L'incubo di Hill House da cui è stata tratta una serie tv e il film Haunting Presenze.

1

Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant'anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola.


Il professor John Montague, laureato in antropologia, aveva preso il dottorato con l'oscura sensazione che in quel campo si sarebbe avvicinato il più possibile alla sua vocazione autentica, l'analisi dei fenomeni paranormali. Teneva al suo titolo poiché, non avendo le sue indagini alcunché di scientifico, sperava gli conferisse un'aura di rispettabilità e perfino di autorità accademica. Non essendo il tipo del questuante, affittare Hill House per tre mesi gli era costato parecchio, in danaro e in orgoglio; ma contava che lo scalpore suscitato da uno studio decisivo sulle cause e gli effetti delle interferenze paranormali in una casa che aveva fama di essere «stregata» l'avrebbe ampiamente ripagato delle sue fatiche. Per tutta la vita aveva cercato una casa che lo fosse davvero. Quando aveva avuto notizia di Hill House era stato dapprima scettico, poi speranzoso, e infine risoluto; non era uomo da lasciarsi sfuggire una casa del genere.


Le intenzioni del professor Montague riguardo Hill House si ispiravano ai metodi degli intrepidi cacciatori di fantasmi ottocenteschi; avrebbe visto che cosa succedeva in quella casa vivendoci dentro. Era sua intenzione, da principio, seguire l'esempio dell'anonima Lady che nel 1897 si era trasferita a Bellechin House e per tutta l'estate aveva intrattenuto scettici ed entusiasti con divertimenti straordinari come partite a croquet e battute di caccia ai fantasmi. Ma scettici, entusiasmi, e bravi giocatori di croquet non sono facili da trovare al giorno d'oggi, e il professor Montague fu costretto ad assumere degli assistenti. Forse la vita vittoriana, più rilassata, si prestava meglio ai meccanismi dell'indagine sul paranormale, o forse la documentazione scrupolosa dei fenomeni per stabilire la realtà è un metodo in gran parte tramontato; ad ogni modo, il professor Mongague non solo fu costretto ad assumere degli assistenti, ma dovette anche trovarli.


Poiché si riteneva una persona prudente e coscienziosa, impiegò nella ricerca una quantità notevole di tempo. Setacciò gli archivi delle società di parapsicologia, gli indirizzari delle riviste del settore, i resoconti degli studiosi, e mise insieme una lista di persone a cui in un modo o nell'altro, in un momento o nell'altro, non importa quanto fugacemente o ambiguamente, erano capitate esperienze fuori dal normale. Dalla lista cominciò con l'eliminare i morti. Quando ebbe poi depennato le persone che gli sembravano in cerca di pubblicità, o troppo poco intelligenti, o inadeguate per via di una chiara tendenza al protagonismo, si ritrovò con una dozzina di nomi. Ciascuna di queste persone, quindi, ricevette una lettera dal professore, che le invitava a passare tutta o una parte dell'estate in una comoda casa di campagna, vecchia ma perfettamente attrezzata, con tanto di bagni, elettricità, riscaldamento centrale e materassi puliti. Lo scopo del loro soggiorno, spiegavano le lettere, era di osservare, e di approfondire le varie storie raccapriccianti che erano circolate sulla casa per quasi tutti gli ottant'anni della sua esistenza. Le lettere del professor Montague non dicevano apertamente che a Hill House c'erano i fantasmi: il professore era un uomo di scienza e si sarebbe guardato bene dal cantar vittoria finché non avesse avuto prova di un vero fenomeno paranormale a Hill House. Di conseguenza le sue lettere avevano una certa ambigua dignità, intesa a far presa sull'immaginazione di un tipo di destinatario davvero speciale. Alla sua dozzina di lettere il professor Montague ottenne quattro risposte, perché gli altri sette o otto candidati si erano presumibilmente trasferiti senza lasciare un indirizzo, o forse avevano perso interesse per il soprannaturale, o addirittura non erano mai esistiti. Ai quattro che risposero, il professore scrisse di nuovo, fissando il giorno preciso in cui la casa sarebbe stata da considerarsi ufficialmente pronta per essere occupata, e includendo istruzioni dettagliate per raggiungerla: come fu costretto a spiegare, era difficilissimo farsi dare delle indicazioni, sopratutto da parte della comunità rurale che circondava la casa. Il giorno prima della partenza, il professore si lasciò persuadere ad accogliere nella sua ristretta cerchia un membro della famiglia proprietaria di Hill House; e arrivò anche un telegramma da uno dei candidati, che si tirava indietro con una scusa palesemente inventata. Un altro non si presentò né scrisse, forse a causa di qualche impellente problema personale. Gli altri due vennero.

Buona lettura!

lunedì 21 ottobre 2019

Incipit: The Sinner. La Peccatrice

Buon pomeriggio lettori! Per mitigare il lunedì che è sempre un po' tragico, mi diverto a lasciare incipit di libri letti o in lettura. Quest'oggi trovate The Sinner di Petra Hammesfahr, un thriller psicologico da cui è stata pure tratta, guarda un po' che novità, la serie tv omonima e mi pare antologica che non ho ancora visto ma iniziato. Mercoledì, come spesso capita v.v troverete la mia recensione. Intanto godetevi questa prima parte del primo capitolo che è abbastanza lungo.

1

Era una calda giornata d’inizio luglio quando Cora Bender decise di morire. 

La notte prima aveva fatto sesso con Gereon. Accadeva regolarmente ogni venerdì e sabato sera. Non ce la faceva a respingerlo, sapeva fin troppo bene quanto lui ne avesse bisogno. E poi lo amava. Anzi, il suo era molto più che amore. Era gratitudine, devozione incondizionata, qualcosa di assoluto.
Gereon le aveva permesso di essere come tutte le altre, una ragazza normale. Per questo voleva che fosse felice e soddisfatto. Un tempo le piacevano le sue effusioni, ma da sei mesi a questa parte non più.
Proprio la vigilia di Natale Gereon aveva portato una radio in camera. Doveva essere una notte speciale. Era la vigilia e loro erano sposati da due anni e mezzo e con un figlio di diciotto mesi.
Gereon aveva ventisette anni, Cora ventiquattro. Lui era alto, sul metro e ottanta, e aveva un fisico slanciato e atletico, pur non praticando sport, non ne aveva il tempo. I suoi capelli erano biondi, appena un po’ più scuri di come li aveva da bambino. Il viso non era né bello né brutto, nella media, ma in fondo Gereon Bender era un uomo medio.
Anche Cora aveva un aspetto piuttosto ordinario, tranne che per una brutta cicatrice sulla fronte e dei segni nell’incavo delle braccia. La prima era il risultato di un incidente, mentre gli altri erano riconducibili a una grave infiammazione cutanea provocata da alcune iniezioni fatte in ospedale. Questa, almeno, era la versione che aveva dato a Gereon. Gli aveva detto di non ricordare i dettagli, ed era vero. Secondo il medico che l’aveva curata le amnesie erano un fenomeno frequente nei casi di brutte ferite alla testa.
C’era una lacuna nella sua vita. Lì si celava un torbido capitolo oscuro, ne era consapevole, ma non riusciva a metterlo a fuoco. In passato, notte dopo notte, ci si era imbattuta innumerevoli volte. L’ultima risaliva a quattro anni prima. Poi aveva conosciuto Gereon e aveva creduto di averla finalmente colmata. Non pensava di venirne risucchiata, una volta sposata con lui. E invece, proprio la vigilia di Natale, successe ancora.
All’inizio andò tutto bene, musica natalizia di sottofondo e le effusioni di Gereon che si facevano più insistenti e appassionate. Lui scivolò giù lentamente, ma a quel punto diventò sgradevole. E non appena le mise la testa fra le gambe e lei avvertì la sua lingua, il volume della musica aumentò. Cora sentiva i colpi impetuosi di una batteria, un basso e le note acute, stridule di un organo. Durò un istante, ma fu più che sufficiente. Qualcosa in lei si spezzò, o si schiuse violentemente, come una cassaforte forzata. Era una sensazione irreale. Come se non fosse più nel suo letto. Sentiva la schiena su un fondo duro e qualcosa in bocca, come se un pollice le premesse in fondo alla lingua provocandole un tremendo conato di vomito.
La ribellione fu solo un riflesso incondizionato. Gli cinse la nuca con le ginocchia premendogli le cosce intorno alla gola. Ancora un po’ e gli avrebbe spezzato il collo, o lo avrebbe strangolato. Non se ne accorse nemmeno, tanto era lontana in quel momento. Tornò in sé solo quando lui, ansimando e
rantolando, le strinse il fianco affondando le unghie nella carne.
Respirava a fatica. «Ma sei impazzita? Che diavolo ti prende?» Si massaggiava la nuca, tossiva, e mentre si tastava la gola fissava Cora scuotendo la testa.
Gereon non capiva perché avesse reagito in quel modo e neanche lei sapeva spiegarsi cosa d’un tratto  le fosse sembrato tanto ripugnante e disgustoso. Così terribile da aver creduto di essere sfiorata dalla lingua della morte.
«Non mi piace» disse chiedendosi cosa avesse sentito. La musica era ancora accesa, volume basso, ritmo lento. Un coro di bambini cantava: «Astro del ciel, pargol divin, mite agnello redentor...». Che altro si poteva ascoltare la vigilia di Natale?
A Gereon nel frattempo era passata la voglia. Spense la radio e la luce, e si tirò su la coperta fino al collo. Non le augurò nemmeno la buonanotte, borbottò soltanto: «Allora lasciamo perdere!».
Lui si assopì subito. Più tardi non sarebbe stata in grado di dire se anche lei si fosse addormentata. A un certo punto si ritrovò seduta sul letto che sferrava pugni in aria urlando: «Basta! Finitela! Lasciatemi stare! Smettetela, porci!». E intanto le martellavano in testa i colpi sfrenati della batteria, il basso e le note stridule dell’organo.
Gereon si svegliò, e afferrandole le mani la scosse gridando: «Cora! Calmati! Che cazzo succede?». Lei non riusciva a smettere né a svegliarsi. Se ne stava seduta al buio a lottare disperata contro qualcosa che incombeva inesorabile su di lei, qualcosa di cui sapeva soltanto che la mandava fuori di testa.
Solo dopo aver ricevuto degli schiaffetti sulle guance tornò finalmente in sé. Gereon voleva sapere cosa le stesse succedendo. Se fosse stato lui a farle qualcosa. Sul momento Cora non aveva ancora le idee abbastanza chiare per potergli rispondere e si limitò a fissarlo. Qualche istante dopo lui tornò a
sdraiarsi. Lei fece lo stesso, e girandosi su un fianco provò a convincersi che si fosse trattato di un incubo come tanti.
Ma la notte seguente, quando Gereon volle riprendere da dove si erano interrotti, le capitò di nuovo. Eppure quella volta non c’era la radio in camera e lui non aveva neanche provato a fare ciò che considerava come la massima espressione del suo amore per lei. Prima arrivò la musica, il volume un po’ più alto e una canzone un po’ più lunga, abbastanza da capire di non averla mai sentita. Poi ricadde nel buco nero da cui sobbalzò sferrando colpi nel vuoto. Non si svegliò. Ci riuscì solo dopo che Gereon la scosse con degli schiaffi sulle guance e chiamandola per nome.
Nella prima settimana di gennaio successe due volte, nella seconda una: un venerdì in cui Gereon era molto stanco. O almeno, questo fu ciò che disse. Il sabato invece commentò: «Sono stufo di questo casino». Forse la stanchezza del venerdì era dettata dallo stesso motivo.
A marzo decise di farla visitare da un medico. «Non è normale, ammettilo. Dobbiamo pur fare qualcosa, o preferisci continuare così per sempre? In tal caso, però, vado a dormire sul divano.»
Cora non consultò nessun dottore. Di sicuro le avrebbe chiesto se sapeva spiegarsi quello strano incubo ricorrente o perché, secondo lei, si ripetesse solo quando faceva sesso con suo marito. Un medico probabilmente avrebbe cominciato a scandagliare quella famosa lacuna, l’avrebbe persuasa a sviluppare la propria consapevolezza. Non avrebbe capito che c’erano cose troppo raccapriccianti per volerne prendere coscienza. Provò con una farmacia, dove le consigliarono un blando sonnifero. Se non altro riuscì a non urlare e sferrare pugni nel vuoto, e Gereon pensò che fosse tornato tutto a posto. Ma non era così.


Buona lettura!

lunedì 14 ottobre 2019

Incipit: Niente è come te

Buon pomeriggio lettori! Oggi vi voglio lasciare l'incipit di un libro di Sara Rattaro, il primo suo che ho letto. Una storia meravigliosa e potente che mi ha dato molto da riflettere, aprendomi gli occhi su alcune situazione che spesso passano in sordina. In settimana pubblicherò la recensione. Fatemi sapere se questo incipit ha smosso qualcosa anche a voi...

Ci sono quelli che sanno sempre come fare, quelli che l'amore te lo descrivono nei minimi dettagli e per questo hanno smesso di cercarlo, gli sputasentenze e i campioni di moralità, i ladri di emozioni e chi sa come si violenta un sentimento. Poi ci sono le persone che sanno darti tutto, o almeno così fanno ti credere, finché un giorno quel tutto se lo portano via e tu ti accorgi che ti hanno sottratto molto di più, anche quello che ti apparteneva: il tuo inviolabile diritto di essere padre. Poi però ci siamo noi che di tempo insieme ne abbiamo trascorso poco, che i ricordi li possiamo solo immaginare, e l'idea di rivederci ci spaventa a morte. Ma siamo tu e io, Margherita e Francesco, a respirare gli stessi dubbi. Mi chiedo se mi assomigli un po', e in cosa. Se anche tu ti mordi le labbra quando pensi, se hai il vizio di giocare con il telecomando quando guardi la TV e detesti il minestrone a pezzi grossi. Non so se quei pochi pregi che ho te li ho regalati o se passerai la vita a combattere la mia pigrizia, se anche tu come me a volte non desidereresti null'altro che un nostro abbraccio o se neanche ti ricordi la mia faccia, se ti chiedi il perché di tanto affanno da parte mia per vederti anche solo un minuto o se rappresento solo una scocciatura tra la scuola e i giochi. Non lo so, e brancolare nel buio non è mai una bella sensazione. Ma di una cosa sono convinto: sarà grazie a ognuno di questi singoli minuti che un giorno capirai che niente, ma proprio niente, è come te, Margherita.

MARGHERITA
Quando l'aereo ha toccato terra è stato come ricevere una frustata su una ferita aperta. L'uomo seduto accanto a me sembrava tranquillo. Mi ha fatto qualche domanda appena siamo saliti, ma poi ha desistito e si è voltato a fissare il vuoto. Credo di essermi addormentata. La notte precedente non avevo chiuso occhio. Continuavo a pensare al maglione che mamma mi aveva prestato. Il suo preferito. Era morbidissimo e teneva caldo. Un giorno le avevo chiesto di metterlo per una festa a scuola, ma quando, qualche tempo dopo, me lo aveva richiesto indietro, io non ero riuscita a ricordare dove lo avessi lasciato. Si era infuriata e aveva iniziato ad alzare la voce, a diventare tutta rossa.

«Non dirmi che l'hai dimenticato a scuola!» E poi un sacco di altre frasi che però non riuscivo più a ricordare.

Come ieri notte mi sono alzata dal letto e ho aperto l'armadio. Il maglione era lì. Ingrid l'aveva piegato con cura e messo via. L'ho afferrato e sono andata in sala dove la mia baby-sitter dormiva quando c'era qualche emergenza per cui mamma non poteva stare a casa con me.
«Ingrid, svegliati!»
«Cosa succede?»
«Voglio che mamma metta questo per il funerale, così saprà che non l'ho perso.»
«O tesoro! Lei preferirebbe che lo tenessi tu, non credi?»
Io ho annuito. Mi ha fatto posto vicino a lei, e stringendo il profumo di mamma ho preso sonno.
«Margherita, dobbiamo scendere.»
Scendere? Improvvisamente non sapevo più dove fossi e nemmeno chi era quell'uomo che mi stava chiamando. Lui ha allungato una mano sul mio braccio. Non mi deve toccare. Non voglio che mi tocchi. E mi sono sentita rabbrividire. «Non voglio scendere!» Mi afferravo al sedile e alla cintura ancora allacciata. «Margherita, siamo arrivati a casa, dobbiamo andare»
«Questa non è casa mia. Io voglio tornare a Viborg!»
L'uomo che mi parlava sembrava aver perso la calma. Si era alzato di scatto, aveva buttato la borsa sul sedile e mi guardava dall'alto mentre gli altri passeggeri gli passavano alle spalle. Siamo rimasti a fissarci negli occhi per un breve istante. Era nervoso, e tutto rosso in volto.
Apriva la bocca per poi richiuderla senza dire nulla, si passava la mano sugli occhi, tra i capelli.
Poco dopo ha spostato la borsa per terra e si è seduto accanto a me. Forse più calmo.
«Margherita, ascoltami, è importante. Siamo arrivati in Italia, a casa. Questo è il posto in cui vivremo insieme.»
Mi sono voltata di scatto e ho iniziato a strillare: «No, no, no... io non voglio venire con te!». E mentre il suo volto si faceva sempre più pallido, ho visto avvicinarsi una hostess.
«Va tutto bene, signore? Dovete lasciare l'aereo. Stanno per salire gli addetti alle pulizie.»
«Certo che va tutto bene!» ha gridato lui senza nemmeno guardarla.
«Non voglio scendere. Io devo tornare da Ingrid!» ho urlato.
«Signore, questa ragazza è sua figlia?» «Certo che è mia figlia!» ha urlato. «Perché me lo chiede?» La donna ha fatto qualche passo in avanti fissandomi spaventata. «Come si chiama?»
«Margherita. Si chiama Margherita ed è mia figlia!»
I suoi occhi passavano da me a lui come se guardasse una partita di tennis. Sembrava in cerca di qualcosa. Forse una somiglianza.
«Margherita?» mi ha chiamata. «Questo signore è tuo padre?»
Ho alzato gli occhi verso di lei e sono scoppiata in lacrime.
«Io voglio la mamma.»
L'uomo si è portato le mani alla testa e si è accasciato sul sedile come se gli avessero sparato.


Buona lettura!

lunedì 7 ottobre 2019

Incipit: The Kingdom

Buon pomeriggio lettori! Oggi spero di incuriosirvi con l'incipit di The Kingdom di Jess Rothenberg, un romanzo che mi fatto riflettere molto sui parchi tematici che ospitano creature viventi. Ma ve ne parlerò meglio mercoledì con la recensione.

1
Il dicembre del camaleonte minore
Un'ora dopo l'omicidio


La stanza in cui lo trovarono era così fredda che, all'inizio, sospettarono fosse morto assiderato. Pallido come la neve, pelle come brina, labbra color del ghiaccio. Secondo la polizia aveva un'espressione assolutamente serena. Come se avesse lasciato questo mondo mentre faceva un sogno bellissimo.
   A parte il sangue.
   Il sangue racconta sempre la sua storia.

2
Interrogatorio al termine del processo
[00:01:03-00:02:54]

DOTT.FOSTER: Sei a tuo agio?
ANA: Mi fa male il polso.
DOTT.FOSTER: Quelli della sicurezza hanno ritenuto necessarie le manette. Spero che tu capisca.
ANA: [Silenzio]
DOTT.FOSTER: Hai bisogno di qualcosa prima di iniziare?
ANA: Posso avere dell'acqua?
DOTT.FOSTER: Certo. [Nel microfono] Vorrei un bicchiere di H2O, per favore. Non più di 170 millilitri. Grazie. [Ad Ana] Arriva tra un minuto.
ANA: Grazie.
DOTT.FOSTER: Di nulla. È il minimo che possiamo fare.
ANA: Questo è vero.
DOTT.FOSTER: È passato molto tempo dal nostro ultimo colloquio.
ANA: Quattrocentoventitré giorni.
DOTT.FOSTER: Come ti senti?
ANA: Non vedo l'ora che questo colloquio finisca.
DOTT.FOSTER: Un'ultima volta, Ana. Poi ti prometto che ti lasceremo riposare.
ANA: Pensavo di aver già risposto a tutte le domande.
DOTT.FOSTER: Abbiamo ancora bisogno del tuo aiuto.
ANA: E perché dovrei aiutarvi, dopo tutto quello che avete fatto?
DOTT.FOSTER: Perché è la cosa giusta da fare.
ANA: Forse intendeva dire che non ho scelta...
DOTT.FOSTER: Ti piacerebbe rivedere le tue sorelle? Sentono la tua mancanza. Magari, dopo che avremo finito qui, posso organizzare una visita. Kaia. Zara. O magari Zel? Che ne dici? Ti piacerebbe?
ANA: [A bassa voce] E se volessi vedere Nia? Oppure Eve?
DOTT.FOSTER: [Silenzio] Ana, sai che non è possibile.
ANA: Perché non mi chiede subito quello che vuole sapere? Non sono dell'umore giusto per i suoi giochi.
DOTT.FOSTER: I miei giochi?
ANA: Perché quel ghigno? Che c'è di tanto buffo?
DOTT.FOSTER: Te lo dico tra un momento. Prima, c'è una cosa che non ho ancora capito.
ANA: La ascolto.
DOTT.FOSTER: Cosa ne hai fatto del corpo, Ana?


Buona lettura!

martedì 1 ottobre 2019

Incipit: The Selection

Buon pomeriggio lettori! Questa settimana vorrei dedicarla alla saga di Kiera Cass, autrice di The Selection, un distopico che prende tantissimo spunto dagli Hunger Games. Oggi trovate l'incipit del primo romanzo, The Selection appunto e nei prossimi giorni le recensioni dei sequel The Elite e The One. QUI invece trovate la recensione del primo romanzo.

Uno

QUANDO trovò la busta nella cassetta delle lettere, mia madre quasi svenne dalla felicità: ecco la fine dei nostri problemi! Purtroppo non aveva tenuto conto di un grosso ostacolo alla realizzazione del suo brillante piano: io. Di solito non sono una figlia particolarmente disobbediente, ma sta volta lei aveva esagerato.

Io non desideravo entrare a far parte della famiglia reale, essere una Uno. Non volevo nemmeno provarci! A proposito, dovete sapere che nel nostro Paese la popolazione è divisa in caste numerate dall'Uno all'Otto. Essere una Uno significa essere una nobile.

Andai a rifugiarmi in camera per sfuggire alle chiacchiere dei miei famigliari, cercando qualche argomento in grado di convincere la mamma a rinunciare. Certo, ci avevo già pensato su, e di buoni motivi ne avevo trovati un sacco...ma nemmeno uno che lei potesse anche lontanamente prendere in considerazione.

Comunque non potevo evitarla ancora per molto, dato che era quasi ora di cena, ed essendo la figlia più grande rimasta in casa mi toccava cucinare. Mi trascinai fuori dal letto, pronta a entrare nella fossa dei leoni.

La mamma mi diede un'occhiataccia, ma non spiccicò parola. Nessuna di noi due aprì la bocca mentre preparavamo pollo, pasta e spicchi di mela e apparecchiavamo la tavola per cinque. Se alzavo gli occhi la beccavo che mi lanciava sguardi assassini per farmi sentire in colpa e convincermi così ad accettare le sue decisioni. Usava questa tattica anche quando rifiutavo un certo lavoro perché sapevo che la famiglia che ci avrebbe ospitate era troppo scortese, oppure quando pretendeva che facessi io le grandi pulizie se non potevamo permetterci di pagare un Sei come aiuto domestico. A volte funzionava e a volte no. Bé, quelle era una delle volte in cui ero irremovibile.

Lei non mi sopportava, quando ero così ostinata. Non avrebbe dovuto stupirsi, dato che avevo preso da lei. E comunque anche la mamma ci metteva del suo: negli ultimi tempi era parecchio nervosa perché l'estate stava finendo e presto sarebbero arrivati il freddo...e le difficoltà.

Mise in tavola la teiera con un gesto nervoso. Il pensiero del tè al limone mi fece venire l'acquolina in bocca, ma avrei dovuto aspettare: era uno spreco berlo subito e poi essere costretta ad accontentarmi dell'acqua durante il pasto.

«Cosa ti costa compilare il modulo?» sbottò dopo un po', quando proprio non riuscì più a trattenersi. «La Selezione potrebbe essere una splendida opportunità, per te...per tutti noi!»

Sospirai forte: per me compilare quel modulo era più o meno come andare al patibolo.

Tutti sapevano che gli assalti al Palazzo da parte dei ribelli che combattevano Illéa, il nostro grande e relativamente giovane Paese, erano sempre più frequenti e brutali. Li avevamo già visti in azione nella nostra provincia, la Carolina, dove avevano incendiato la casa di un magistrato e distrutto la macchina di alcuni Due. Avevano organizzato persino un'evasione in grande stile, ma siccome avevano liberato soltato una ragazzina che si era fatta mettere incinta e un Sette padre di nove figli, quella volta non potei fare a meno di pensare che fossero dalla parte del giusto.

Ma, a parte i potenziali pericoli, alla sola idea della Selezione mi veniva da piangere. Sorrisi, riflettendo sul vero motivo per cui volevo rimanere esattamente dov'ero.

«Questi ultimi anni sono stati molto duri, per tuo padre», sibilò ancora la mamma. «Se hai un briciolo di compassione, pensa a lui.»

Papà. Giusto. Volevo aiutarlo, davvero. E anche May e Gerard. E perfino mia madre. Certo, la situazione era tutt'altro che rosea: era troppo tempo che in casa nostra si tirava la cinghia. Mi chiedevo se un po' di soldi avrebbero potuto migliorare le cose facendo ritrovare l'ottimismo a papà.

Non che fossimo poveri...Ma la nostra casta era solo a tre gradini dal fono. Eravamo artisti, noi, e gli artisti e i musicisti clasici, nella stragrande maggioranza dei casi, erano considerati poco più che spazzatura. Le nostre entrate erano ridottissime e dipendevano in larga misura dal mutare delle stagioni.

Ho letto in un vecchio libro di storia che, un tempo, tutte le principali festività erano concentrate nei mesi invernali. Tipo, c'era una cosa chiamata Halloween, seguita dal Ringraziamento e poi da Natale e Capodanno. Una dietro l'altra.

Natale c'era ancora. Non è che si può cmbiare la data di nascita di una divinità, giusto? Però, da quando Illéa aveva stipulato l'importante trattato di pace con la Cina, il Capodanno cambiava a seconda della Luna e poteva essere a gennaio o febbraio. Tutte le feste che ricordavano l'indipendenza nella nostra parte del mondo si erano ridotte alla Festa della Riconoscenza, che cadeva d'estate e celebrava la nascita di Illéa, il fatto di essere ancora qui.

Halloween invece non si sapeva che fine avesse fatto.


Buona lettura!