lunedì 9 dicembre 2019

Incipit: Fredda è la notte

Buongiorno lettori! Questi giorni sono per me carichi di cose da fare in preparazione delle feste di Natale, tra addobbi, pacchi e bigliettini, il tempo è sempre quello che manca alla fine della giornata. Nonostante tutto riesco a leggere abbastanza e il giallo che ho quasi terminato sarà presto fonte di post dedicati. Ma oggi voglio parlarvi di Carlene Thompson e del suo Fredda è la notte. Per chi non la conoscesse è un'autrice di romanzi gialli un po' vecchio stampo, ovvero l'ambientazione è ai giorni nostri ma il modo di raccontare, di descrivere le scene dell'autrice ricorda molto la regina Agatha Christie. La particolarità delle sue storie è quella di aver come protagoniste sempre donne all'apparenza fragili ma che in realtà sono coraggiose e combattive. Vi lascio all'incipit e in settimana alla recensione completa!

Prologo

 Si sforzò di aprire gli occhi. Per prima cosa vide un grappolo di stelle sullo sfondo del cielo nero come la morte, poi qualcuno chinarsi su di lei. "Ancora sveglia?" chiese.
 Le erbacce le irritavano il viso. Alzò la testa. "Per favore..."
 "Per favore cosa? Vuoi che ti lasci andare? Non posso. Non più".
 Le vennero le lacrime agli occhi. Accidenti, stava sognando? No. Nei sogni il cuore le batteva forte, mentre ora il ritmo rallentava. Le lacrime le colarono sulle tempie poi tra i capelli.


 D'un tratto si ricordò che una volta, a cinque anni, era sgattaiolata fuori dalla sua camera per esplorare la casa in costruzione accanto alla sua. Era diventata un'attrazione irresistibile non appena le avevano detto che era pericolosa, che non avrebbe dovuto andarci mai. Dopo essere scesa al piano di sotto in punta dei piedi, mentre gli altri guardavano la televisione, era uscita dalla porta sul retro, rischiando di inciampare nei lacci sciolti delle sue scarpe da ginnastica che spuntavano dalla lunga camicia da notte. Si era aggirata per il cantiere in punta di piedi, euforica, rifiutandosi di trovare deludenti le assi, le carriole e le macchine che di giorno scavavano l'enorme buca. Il nonno le aveva spiegato che sarebbe diventata la cantina. Guardandosi attorno si era sforzata d'immaginare tutto quello spazio ingombro di vecchi mobili e libri come la loro, anche se in realtà sarebbe stata molto diversa; sempre secondo il nonno, i nuovi proprietari intendevano ricavarci una sala giochi, con tavoli da ping-pong e "altre diavolerie" per far divertire i figli.


 Cominciando ad annoiarsi, aveva deciso di provare l'ebrezza di sporgersi dalla buca; ma era inciampata nel laccio di una scarpa ed era precipitata, emettendo un piccolo grido solo al momento di toccare terra. Poi, mentre giaceva con la gamba rotta e dolorante, e una gran confusione in testa per la botta, si era ritrovata a guardare le stelle - le stesse che vedeva ora - e aveva pianto per il dolore, terrorizzata all'idea di restare li per sempre senza poter dire quanto fosse pentita di aver fatto una cosa tanto brutta che Dio l'avrebbe fatta morire per questo.


 Ora però aveva diciassette anni e sapeva con certezza che stava per morire. Non c'era più il nonno, che quella volta era uscito a cercarla, un'ora dopo la sua scomparsa quando si erano accorti che lei non era nel suo letto. Nessuno sarebbe venuto in suo aiuto e lei non avrebbe avuto scampo.
 Fu colta dal panico. "Non puoi farlo" disse al volto chino su di lei.
 "Lo devo fare e lo farò".
 Alzò la testa. Respirava a fatica. "Ti odio" disse a denti stretti, dando sfogo alla collera.
 "Che ne è stato della ragazzina buona e dolce che tutti conosciamo? Ora mostri il tuo vero carattere?" Seguì una pausa. "Comunque me ne infischio di quello che pensi di me e ti consiglio di risparmiare il poco fiato che ti resta".
 La ragazza tremava, si muoveva a scatti. Non era legata. Agitava le gambe perché aveva perso il controllo dei muscoli. Quando si fermarono, fu come se non facessero più parte del suo corpo. Con un gemito lasciò ricadere la testa all'indietro.
 "Così va meglio. Non vorrai continuare a rivoltarti contro di me fino all'ultimo, vero?"
 Tentò di parlare. Ti prego, non farlo, avrebbe voluto dire. Non me lo merito. Ma la sua lingua d'un tratto diventò enorme, la gola secca e si udì soltanto 'prego' e 'merito'.
 Un sospiro, poi la voce assunse un tono di gelida efficienza. "Si sta facendo tardi. E' ora di agire".


 La mano destra che si alzò su di lei brandiva un coltello da cucina. La sua lama seghettate splendeva alla luce della luna. "Avrei preferito ucciderti nel sonno, ma sei talmente testarda che non vai nemmeno a dormire quando dovresti".
 In un attimo le passarono davanti agli occhi i progetti per l'università, le partite di pallone negli anni del liceo nelle fresche sere d'autunno, il viso amorevole della nonna, il ricordo di Taffy, il suo adorato gatto, scomparso quando lei aveva sette anni, la sua auto nuova, le mani di lui che l'accarezzavano dolcemente. Gli stupendi occhi viola di zia Joan...


 Ma tutto si dissolse nella visione quasi surreale del coltello che le si conficcava nella carne. I suoi polsi erano squarciati. Il sangue tiepido le colò sulle braccia fumando leggermente nel fresco della sera. Aprì la bocca per parlare, ma tutto ciò che ne uscì fu un gemito appena percettibile. Fece un ultimo, disperato tentativo di reggersi su un gomito, ma era troppo debole e si abbandonò tra i rovi, respirando affannosamente.


 Il battito del cuore era sempre più flebile, ma il cervello funzionava ancora, seppure in modo confuso. Aveva ragione la nonna, le venne stranamente da pensare. Ripeteva sempre che il male che si ha nell'animo prima o poi si ritorce contro di noi. Le sue intenzioni erano cattive - l'aveva sempre saputo. Contrastavano con tutto quello che le era stato insegnato sulla sacralità della vita, ma lei non era l'unica a essersi comportata male.


 Una mano le afferrò il polso sinistro e l'alzò verso il coltello. Nella rassegnazione che subentra quando si è ormai completamente disperati, smise di pensare, guardò ancora una volta quel turbinio di stelle. Poi chiuse gli occhi.


Buona lettura!

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