Buongiorno lettori! Arriva anche per questa prima settimana di Novembre, in cui le temperature si sono decisamente abbassate, l'incipit consueto. Agatha Christie fa da protagonista questa settimana con il suo Assassinio sull'Orient-Express. Avete visto l'ultima rappresentazione filmica?
Parte prima
I fatti
Capitolo primo
Un passeggero importante sul Taurus Express
Erano le cinque di una mattina invernale in Siria. Alla stazione di Aleppo sostava il treno definito dagli orari ferroviari con il nome altisonante di Taurus Express. Era composto da un vagone ristorante, un vagone letto e due vagoni ordinari.
Accanto al predellino del vagone letto un giovane tenente francese conversava con un ometto imbacuccato fino alle orecchie, del quale si vedevano soltanto la punta del naso e le due estremità dei baffi arricciati all'insù.
Faceva un freddo glaciale, e il compito di accompagnare alla stazione un distinto viaggiatore straniero non era certo da invidiare, ma il tenente Dubosc faceva virilmente la sua parte. Dalle sue labbra uscivano con eleganza frasi francesi ben tornite. Non che avessa la minima idea dell'intera faccenda. C'erano state voci, naturalmente, come sempre in casi del genere.
L'umore del generale, del suo generale, si era fatto sempre più nero. E poi era arrivato questo belga: fin dall'Inghilterra, a quanto pareva. C'era stata una settimana di strana tensione. In seguito erano accadute alcune cose. Un ufficiale di grado molto elevato si era suicidato, un altro aveva dato le dimissioni; l'ansia era scomparsa all'improvviso da volto tesi, alcune precauzioni militari erano state allentate. E il generale, il generale del tenente Dubosc, era sembrato all'improvviso dieci anni più giovane.
Dubosc aveva udito parte di una conversazione fra lui e lo straniero. «Lei ci ha salvato, mon cher» aveva detto il generale commosso, con i grandi baffi bianchi tremanti. «Ha salvato l'onore dell'esercito francese, ha evitato che si spargesse del sangue! Come posso ringraziarla per avere risposto alla mia chiamata? Per essere venuto da tanto lontano...?»
AL che lo straniero - un certo Monsieur Hercule Poirot - aveva dato una risposta adeguata che includeva la frase: «Non ricordo, forse, come una volta lei mi abbia salvato la vita?» E il generale gli aveva dato una risposta altrettanto adeguata, respingendo ogni merito per quel servizio resogli in passato. Poi, con ulteriori accenni alla Francia, al Belgio, alla gloria, all'onore e ad altre cose del genere, si erano abbracciati cordialmente e la conversazione aveva avuto termine.
Quanto all'argomento di cui avevano trattato, il tenente Dubosc ne era ancora all'oscuro, ma gli era stato assegnato il compito di accompagnare Monsieur Poirot al Taurus Express, e lui lo eseguiva con tutto lo zelo e l'ardore che si confacevano a un giovane ufficiale con una promettente carriera davanti a sé.
«Oggi è domenica» disse il tenente Dubosc. «Domani, lunedì sera, sarà a Istanbul.»
Non era la prima volta che faceva quell'osservazione. Le conversazioni sul marciapiede prima della partenza di un treno sono spesso alquanto ripetitive. «Proprio così» convenne Monsieur Poirot.
«E intende restarci qualche giorno, credo.»
«Mais oui.. Istanbul è una città che non ho mai visitato. Sarebbe un peccato attraversarla...comme ça.» Fece schioccare eloquentemente le dita. «Non ho alcuna fretta, mi fermerò per qualche giorno da turista.»
«Santa Sofia è molto bella» disse il tenente Dubosc, che non l’aveva mai vista.
Un vento freddo soffiò sul marciapiede. Entrambi rabbrividirono. Il tenente Dubosc riuscì a lanciare uno sguardo furtivo al suo orologio. Mancavano cinque minuti alle cinque, solo cinque minuti ancora!
Temendo che l’altro avesse notato il suo sguardo, si affrettò a parlare di nuovo.
«Ci sono pochi viaggiatori in questa stagione» disse, lanciando uno sguardo ai finestrini del vagone letto.
«Proprio così» convenne Monsieur Poirot.
«Auguriamoci che non restiate bloccati dalla neve sul Tauro.»
«Succede?»
«È successo, sì. Non quest’anno, per ora.»
«Speriamo bene, allora» disse Monsieur Poirot. «Le notizie dall’Europa non sono buone.»
«Tutt’altro che buone. Nei Balcani c’è molta neve.»
«Anche in Germania, ho sentito.»
«Eh bien» si affrettò a dire il tenente Dubosc, temendo un’altra pausa nella conversazione. «Domani sera alle sette e quaranta sarà a Costantinopoli.» «Sì» disse Monsieur Poirot, e aggiunse disperato: «A quanto ho sentito, Santa Sofia è molto bella.»
«Splendida, credo.»
La tendina di uno degli scompartimenti del vagone letto sopra di loro venne scostata e una giovane donna guardò fuori.
Mary Debenham aveva dormito poco da quando aveva lasciato Baghdad, il giovedì precedente. Non aveva dormito bene né sul treno per Kirkuk, né all’albergo di Mosul, né quella notte in treno. Adesso, stanca di stare distesa nel caldo soffocante dello scompartimento surriscaldato, si era alzata e sbirciava fuori.
Doveva essere Aleppo. Non c’era niente da vedere, naturalmente. Solo un lungo marciapiede male illuminato con qualcuno che litigava ad alta voce in arabo da qualche parte. Due uomini sotto il suo finestrino parlavano in francese. Uno era un ufficiale francese, l’altro un ometto con baffi enormi.
Accennò un sorriso. Non aveva mai visto nessuno tanto imbacuccato. Fuori doveva fare molto freddo. Ecco perché riscaldavano tanto il treno. Cercò di abbassare il vetro, ma non scendeva.
Il controllore del vagone letto si era avvicinato ai due uomini. Il treno stava per partire, disse. Monsieur avrebbe fatto meglio a salire. L’ometto si tolse il cappello. Aveva la testa a forma di uovo. Malgrado le sue preoccupazioni, Mary Debenham sorrise. Era un ometto ridicolo. Il tipo di ometto che non si sarebbe mai potuto prendere sul serio.
Il tenente Dubosc pronunciava il suo discorso di congedo. Lo aveva messo a punto in precedenza tenendolo in serbo per l’ultimo minuto. Era un discorso molto bello e forbito.
Per non essere da meno, Monsieur Poirot rispose sullo stesso tono.
«En voiture, monsieur» disse il controllore del vagone letto.
Con espressione di infinita riluttanza, Monsieur Poirot salì sul treno. Il controllore salì dietro di lui. Monsieur Poirot salutò con la mano. Il tenente Dubosc si portò la mano alla visiera. Con uno scossone terribile il treno si mosse lentamente.
«Enfin!» mormorò Monsieur Hercule Poirot.
«Brr» sbuffò il tenente Dubosc, rendendosi conto appieno di quanto freddo facesse…
«Voilà, monsieur.» Con un gesto teatrale il controllore mostrava a Poirot la bellezza del suo scompartimento e come fosse stato sistemato il bagaglio.
«La valigetta di monsieur, l’ho messa qui.»
Tese la mano in modo eloquente. Hercule Poirot vi mise una banconota ripiegata.
«Merci, monsieur.» Il controllore assunse un atteggiamento pratico e spiccio. «Ho qui i biglietti di monsieur. Mi dia anche il passaporto, prego. A quanto ho capito, monsieur interrompe il viaggio a Istanbul.»
Monsieur Poirot assentì.
«Non ci sono molti viaggiatori, immagino» disse.
«No, monsieur. Ci sono solo altri due passeggeri, entrambi inglesi. Un colonnello proveniente dall’India e una giovane signora da Baghdad. Ha bisogno di qualcosa?»
Monsieur chiese una bottiglietta di Perrier.
Le cinque del mattino sono un’ora scomoda per salire in treno. Mancano ancora due ore all’alba. Consapevole di aver dormito poco, quella notte, e di aver portato a termine con successo una missione delicata, Monsieur Poirot si raggomitolò in un angolo e si addormentò.
Quando si svegliò erano le nove e mezzo, e fece una sortita verso il vagone ristorante in cerca di un caffè.
Al momento c’era solo un altro passeggero, evidentemente la giovane signora inglese della quale aveva parlato il controllore. Alta, snella e bruna, doveva essere sui ventotto anni. L’aria di fredda efficienza nel suo modo di mangiare e di chiamare il cameriere perché le portasse altro caffè testimoniava una profonda conoscenza del mondo e dei viaggi. Indossava un abito da viaggio scuro di una stoffa leggera molto adatta all’atmosfera surriscaldata del treno.
Hercule Poirot, non avendo niente di meglio da fare, si divertì a studiarla senza parere. Doveva essere quel tipo di giovane donna che sa badare perfettamente a se stessa dovunque vada. Era calma ed efficiente. A Poirot non dispiacevano la severa regolarità dei suoi lineamenti e il pallore delicato della pelle. Apprezzava la sua testa bruna e lucente con i capelli ben pettinati a onde, e gli occhi grigi, freddi e impersonali. Ma era un po’ troppo efficiente, decise, per essere ciò che lui definiva una “jolie femme”.
Ben presto entrò nel vagone ristorante un’altra persona. Era un uomo alto, fra i quaranta e cinquanta, snello e di carnagione bruna, con le tempie appena brizzolate.
“Il colonnello che viene dall’India” si disse Poirot.
Il nuovo venuto si inchinò alla ragazza.
«Buon giorno, signorina Debenham.»
«Buon giorno, colonnello Arbuthnot.»
Il colonnello stava in piedi con una mano appoggiata alla sedia dirimpetto a quella di lei.
«Niente in contrario?» chiese.
«No, naturalmente. Si sieda.»
«Sa, a colazione non sempre si ha voglia di chiacchierare.»
«Infatti. Ma non mordo.»
Il colonnello si sedette.
«Ragazzo» chiamò in tono perentorio.
Ordinò caffè e uova.
Il suo sguardo si posò per un attimo su Hercule Poirot, ma si spostò subito con indifferenza. Poirot, leggendogli correttamente nel pensiero, comprese che si era detto: “Soltanto un dannato straniero.”
Fedeli alla propria nazionalità, i due inglesi non parlavano molto. Si scambiarono poche brevi osservazioni, e presto la ragazza si alzò per tornare nel suo scompartimento.
A pranzo lei e il colonnello si sedettero di nuovo a tavola insieme ed entrambi ignorarono completamente il terzo passeggero. La loro conversazione era più animata che a colazione. Il colonnello Arbuthnot parlava del Punjab e di tanto in tanto rivolgeva qualche domanda alla ragazza su Baghdad, dove fu presto chiaro che aveva lavorato come istitutrice. Nel corso della conversazione scoprirono alcuni amici comuni, il che ebbe l’effetto immediato di renderli più cordiali e meno riservati. Parlarono del vecchio Tommy Tal-dei-tali e di Jerry Tal-altro. Il colonnello si informò se andasse direttamente in Inghilterra o se si fermasse a Istanbul.
«No, proseguo direttamente.»
«Non è un peccato?»
«Ho fatto lo stesso percorso due anni fa in senso inverso e mi sono fermata tre giorni a Istanbul.»
«Oh, capisco. Be’, devo dire che sono lieto che prosegua, perché proseguo anch’io.»
Accennò una specie di goffo inchino, arrossendo impercettibilmente.
“Il nostro colonnello è alquanto sensibile” pensò Hercule Poirot divertito. “Il treno sembra pericoloso quanto un viaggio per mare!”
La signorina Debenham disse in tono pacato che sarebbe stato molto piacevole. I suoi modi erano lievemente scoraggianti.
Hercule Poirot notò che il colonnello la riaccompagnava allo scompartimento. Poco dopo attraversarono lo splendido scenario del Tauro. Mentre ammiravano le Porte della Cilicia, in piedi nel corridoio l’uno accanto all’altra, all’improvviso la ragazza sospirò. Poirot stava accanto a loro e la udì mormorare.
«È così bello! Vorrei… vorrei…»
«Sì?»
«Vorrei potermelo godere!»
Arbuthnot non rispose. La sua mascella quadrata sembrò più ostinata e severa.
«Vorrei con tutto il cuore che ne fossimo fuori» disse.
«Silenzio, per favore. Silenzio.»
«Oh! È tutto a posto.» L’uomo lanciò uno sguardo vagamente irritato in direzione di Poirot. Poi proseguì: «Ma non mi piace proprio il lavoro di istitutrice, sempre agli ordini di madri tiranniche e di insopportabili marmocchi.»
Lei rise e fu come se per un attimo si lasciasse un po’ andare.
«Oh! Non è affatto così. L’istitutrice oppressa è un mito del tutto sorpassato. In realtà sono i genitori a temere di venire tiranneggiati da me.» Non dissero altro. Forse Arbuthnot si vergognava di aver parlato tanto impulsivamente.
“È una commediola piuttosto strana quella cui mi trovo ad assistere” si disse pensoso Poirot.
In seguito avrebbe ricordato questa riflessione.
Arrivarono a Konya quella sera alle sette e mezzo circa. I due passeggeri inglesi scesero a sgranchirsi le gambe, passeggiando su e giù sul marciapiede coperto di neve.
Monsieur Poirot si accontentò di osservare da un finestrino l’attività frenetica della stazione. Dopo circa dieci minuti, tuttavia, decise che forse una boccata d’aria non gli avrebbe fatto male. Si preparò accuratamente, avvolgendosi in molteplici cappotti e sciarpe e infilando i lindi stivali nelle calosce. Così bardato scese con cautela sul marciapiede e incominciò a percorrerlo. Arrivò oltre la locomotiva.
Furono le voci a rivelargli le due figure indistinte nell’ombra di un carro merci. Era Arbuthnot a parlare.
«Mary…»
La ragazza lo interruppe.
«Non ora. Non ora. Quando tutto sarà finito. Quando ce lo saremo lasciato alle spalle… allora…»
Poirot si allontanò discretamente. Si chiedeva di che cosa parlassero.
Aveva stentato a riconoscere la voce fredda, efficiente della signorina Debenham…
“Strano” si disse.
Il giorno dopo, si chiese se per caso non avessero litigato. I due si rivolgevano appena la parola. La ragazza, pensò, sembrava preoccupata. Aveva due cerchi scuri intorno agli occhi.
Erano circa le due e mezzo del pomeriggio quando il treno si fermò. Si videro alcune teste sporgersi dai finestrini. Un piccolo manipolo di uomini era radunato accanto alle rotaie e accennava a qualcosa sotto il vagone ristorante.
Poirot si sporse a parlare con il controllore del vagone letto che passava in fretta. L’uomo gli rispose e Poirot ritirò la testa: voltandosi, si scontrò quasi con Mary Debenham in piedi proprio dietro di lui.
«Di cosa si tratta?» gli chiese quasi senza fiato in francese. «Perché ci siamo fermati?»
«Non è niente, mademoiselle. Qualcosa ha preso fuoco sotto il vagone ristorante. Niente di serio. Lo hanno spento. Adesso riparano il danno. Non c’è pericolo, glielo assicuro.»
Lei fece un piccolo gesto brusco, quasi giudicasse l’idea del pericolo assolutamente priva di importanza.
«Sì, sì, capisco. Ma l’orario!»
«L’orario?»
«Sì, ci sarà un ritardo.»
«È probabile» convenne Poirot.
«Ma non possiamo permetterci un ritardo! Il treno deve arrivare alle 6.55 e dobbiamo attraversare il Bosforo e prendere il Simplon Orient Express alle 9 precise. Se ci saranno un’ora o due di ritardo, perderemo la coincidenza.»
«Sì, è probabile» ammise lui.
La guardò incuriosito. La mano aggrappata alla sbarra del finestrino non era perfettamente ferma e anche le sue labbra tremavano.
«È tanto importante per lei, mademoiselle?» le chiese.
«Sì, molto. Devo, devo prendere quel treno.»
Gli voltò le spalle e si allontanò lungo il corridoio per raggiungere il colonnello Arbuthnot.
Ma la sua apprensione era superflua. Dieci minuti dopo il treno ripartiva. Arrivò a Haydarpasa con soli cinque minuti di ritardo, avendo recuperato durante il viaggio.
Il Bosforo era agitato e a Monsieur Poirot la traversata non piacque affatto. Sulla nave venne separato dai suoi compagni di viaggio, che non rivide più.
Quando arrivò al ponte di Galata si recò immediatamente all’Hotel Tokatlian.
Buona lettura!
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